Epoca di una civiltà inquieta.
La nostra civiltà separa più che unire. Anche se è un bisogno vitale , (…) anche se costituisce la risposta alle inquietudini individualistiche, tutti noi abbiamo bisogno del legame con l’altro”
Edgar Morin , La Méthode TVI, Ethique, 2005, p.115.
Inquietùdine: stato d’animo turbato, senso di apprensione, di ansia provocato soprattutto da incertezza, timore, preoccupazione. Meno com., irrequietezza psichica, come stato abituale d’insoddisfazione, di intimo travaglio (vocabolario Treccani).
A differenza di altri periodi storici che hanno visto la morte di grandi imperi o la fine di convinzioni scientifiche che davano all’uomo il senso del suo essere speciale, noi viviamo in un epoca in cui si sgretolano le convinzioni più quotidiane: “il matrimonio è per sempre”, il “posto fisso” al lavoro, ci si sposa, si faranno di figli… Noi avremmo dovuto semplicemente crescere, crearci una professione o, quanto meno, trovarci un’occupazione, sposarci e mettere su famiglia. Ma la comunità ci dà una serie di messaggi contrastanti e tutto ciò risulta estremamente complicato. La società nella sua corsa al cambiamento ha portato una serie di sconvolgimenti che impattano su ognuno di noi. La disoccupazione rappresenta un problema per il Paese, aumentano le persone sole e diminuiscono le nascite. In aggiunta secondo i dati Istat, un matrimonio su quattro giunge alla separazione.
È la fotografia di una società inquieta.
Una società in cui gli equilibri su cui si basava la generazione precedente, sono “saltati per aria” e le regole sono cambiate. Ignoranza, impotenza, frustrazione sono le condizioni dell’uomo contemporaneo. In una stagione ricca di cambiamenti come quella che sta vivendo attualmente il nostro Paese, diviso tra un progresso tecnologico che avanza, la perdita dei valori e delle sicurezze che caratterizzavano la società di un tempo, la paura rischia di essere una compagna permanente L’inquietudine, paradossalmente, influisce e ne è conseguenza, una sorta di gatto che si morde la coda. Non si possono costruire relazioni senza un po’ di serenità interiore, le persone, alzano barriere d’incomprensibile ostilità, per paura, debolezza, timore di mostrare la propria fragilità. Ed ecco che la difficoltà di creare una vita di coppia prima ed una famiglia dopo aumenta sempre di più. Siamo arrivati alla “modernità liquida” teorizzata da Bauman (vedi più vanti nell’articolo) che, nonostante la nascita di nuove reti e connessioni si è fatta inafferrabile e difficilmente definibile. Anche il progresso tecnologico si è sviluppato sempre più velocemente lasciando indietro lo sviluppo delle coscienze, dei rapporti umani e uno dei primi effetti di questa nuova società è la paura della solitudine, il bisogno di non sentirsi soli. Il risultato lo abbiamo attorno, tutti i giorni. Una società perennemente insoddisfatta, dove la solitudine la fa da padrona ed il fulcro dei sentimenti, quelli autentici, diventa sempre più spesso rintracciabile solo nei social o in relazioni mordi e fuggi.
Tre i fattori che analizzo nel presente articolo: l’analfabetismo emotivo, le passioni tristi e la società liquida che a mio avviso concorrono per creare ed alimentare l’inquietudine nella nostra epoca.
Analfabetismo emotivo
L’intelligenza emotiva viene definita per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: “La capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni”. Ovvero non solo la capacità di consapevolezza e padronanza di sé, ma anche la motivazione, l’empatia e l’abilità nelle gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.
Goleman definisce l’intelligenza emotiva come la capacità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri. L’autore individua due tipi di competenze alla base dell’intelligenza emotiva, con specifiche caratteristiche:
La prima competenza è quella Personale, come controlliamo noi stessi, composta da:
Consapevolezza: capacità di riconoscere le proprie emozioni, i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità;
Padronanza: saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
Motivazione: spinta a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che si presentano, impegnandosi nonostante le possibili avversità.
La seconda competenza è quella Sociale, come gestiamo le relazioni con l’Altro. Caratterizzata da:
Empatia: la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui.
Abilità sociali: tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo.
Goleman (1995) afferma che questi concetti vanno appresi in tenera età: possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro.
Le emozioni hanno un compito adattivo e contingente, tanto sono più rapide nel mettere in atto le risposte e tanto più sono efficaci. Ma la rapidità può talvolta essere a discapito della precisione e dell’adeguatezza. Il sistema nervoso ha evoluto nel tempo l’abilità di dare la risposta più veloce possibile in ogni situazione. Ma in molti casi per questione di rapidità vengono bypassate le aree cerebrali corticali a cui corrisponde l’intelligenza intellettiva dal più svelto “sistema sottocorticale limbico”, l’area in cui vengono elaborate le risposte emotive. Questa caratteristica si è rivelata decisiva nel corso dell’evoluzione dell’uomo per la sopravvivenza. Un improvviso rumore alle spalle porta a scansarsi istintivamente prima ancora di rendersi conto di cosa si tratti: la paura del momento provoca una reazione immediata che può fare la differenza fra la vita e la morte, ad esempio nel caso sopraggiunge veloce una macchina. Analoghe situazioni si ripetono per le altre emozioni come nella rabbia, nella gioia, nella tristezza: la risposta emotiva pervade il cervello ancora prima che la venga pensata dalle aree superiori, creando un “sequestro emotivo”. Quando si viene attaccati, o trattati ingiustamente, le risposte d’attacco o di fuga sono spinte che richiedono un controllo delle aree istintive cerebrali per placarle e ricondurle ad una visione più adattiva. Tutti andiamo soggetti a queste risposte, anche le persone più emotivamente competenti. Se non si sviluppa l’Intelligenza Emotiva si corre il rischio di diventare analfabeti emotivi, si diventa incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni, e si ha difficoltà a riconoscere anche le emozioni altrui, il che rende incapaci di provare empatia e compassione; un analfabeta emotivo è quindi freddo, imprevedibile.
Secondo Goleman, la consapevolezza delle proprie emozioni diventa piuttosto bassa: le dinamiche emotive sono scarsamente conosciute e risulta arduo, se non impossibile, attribuire a sé stessi il potere di influenzare i propri stati emotivi. E’ in questa inadeguatezza che ha radice l’analfabetismo emotivo, l’incapacità di interpretare correttamente i propri e gli altrui atteggiamenti, genera risposte disadattive e aspecifiche, comprendenti spesso attacchi inutili, che sono nella vita moderna, secondo Goleman, più causa di problemi che di soluzioni. Le situazioni di emergenza richiedenti risposte immediate per la sopravvivenza, sono sempre più rare nella quotidianità dell’uomo moderno, mentre sono sempre più adattive le doti di mediazione, di elaborazione corticale e di autocontrollo. La prima abilità è quindi il controllo che discende dal saper leggere le varie situazioni della vita e dall’interpretare correttamente i sentimenti ed i comportamenti degli altri in modo da evitare “il sequestro emotivo” o comunque da adeguarlo alle circostanze. Questo è il compito dell’“educazione emotiva” presente fin dalla più tenera età, ma secondo Goleman nella maggioranza dei casi la formazione emotiva è puramente casuale, con la conseguenza di una società in cui le persone tendono alla solitudine e di una comunità in cui la capacità di ascoltare gli altri si fa sempre più carente. È da attribuirsi a ciò la causa dell’incremento della violenza, della depressione, dei suicidi, ma anche delle rotture e della violenze nella famiglia e l’aumento della criminalità giovanile
Umberto Galimberti, uno tra i più noti filosofi italiani moderni, ha analizzato il fenomeno dell’analfabetismo emotivo, soprattutto tra i più giovani.
Nel nostro tempo caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e da carenza di comunicazione, si avvertono i segnali di quella indifferenza emotiva per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte a fatti a cui si assiste o a gesti che si compiono (Galimberti, 2009).
La violenza diventa pratica normale, è aggressività indefinibile, futile, casuale. Manca una educazione emotiva e quindi un’educazione ai comportamenti e alle relazioni (Galimberti, 2009).
Le passioni tristi
Si deve a due autori francesi un filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, e Gérard Schmit, professore di psichiatria infantile e dell’adolescenza che insegna all’università di Reims, la scoperta di un malessere diffuso, di una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali. Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava le ‟passioni tristi”: la nostra non è più l’epoca dell’entusiasmo per i “segni prognostici” dell’avvenire, bensì l’epoca del ripiegamento e dell’implosione delle aspettative, vi è un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere preparando i nostri figli. I problemi dei ragazzi sono il segno visibile della crisi della cultura moderna occidentale fondata sulla promessa del futuro. Si continua a educarli come se questa crisi non esistesse, ma la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dall’idea che la libertà sia il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri. Tutto deve servire a qualcosa e questo utilitarismo si ripercuote sui più giovani e li plasma.
I due autori osservato gli utenti dei servizi di consulenza psicologica e psichiatrica in Francia e hanno costatato in loro sofferenze che non hanno un’origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà. La crisi non è tanto del singolo, quanto della società.
Si tratta di passioni che lasciano le famiglie disarmate e angosciate all’idea di non essere in grado di provvedere al disagio, di non essere una «buona famiglia», ma le passioni tristi hanno la loro origine nella crisi che deriva dal cambiamento del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia». La psiche è sana quando è aperta al futuro, mentre è depressa se tutta raccolta nel passato e maniacale quando è tutta concentrata sul presente ma ora il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine. A questo punto le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’ energia vitale implode. Per i due psichiatri francesi, il punto di partenza è la fine dell’ottimismo teologico, che visualizzava il passato come male, il presente come redenzione, il futuro come salvezza. Gli eredi, ovvero la scienza, l’utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade: colpa, redenzione, salvezza trovava una nuova formulazione dove il passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come salvezza. Il positivismo di fine Ottocento era infatti animato da una sorta di messianesimo scientifico, che assicurava un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza. L’Occidente ha guardato l’avvenire nella convinzione che la storia dell’umanità è una storia di progresso e quindi di salvezza. Oggi questa visione ottimistica è scomparsa: inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, radicamento di egoismi, disastri economici, nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, le guerre hanno fatto cambiare la percezione del futuro dall’estrema positività all’estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza direzione e orientamento. Il futuro da «promessa» è diventato «minaccia». E questo perché se è vero che la tecnoscienza progredisce nella conoscenza del reale, nello stesso momento ci getta in una forma di ignoranza diversa che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano. Riprendendo Spinoza, viviamo in un’ epoca dove il riferimento non è al dolore o al pianto, ma all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’ Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della civiltà.
I consultori, cartina tornasole del disagio psicologico, sono sollecitati da genitori e insegnanti che non sanno più come far fronte all’indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isola nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, con gli occhi nei tablet o smartphone, oppure nell’escalation della violenza. La mancanza di un futuro come promessa blocca il desiderio nel solo presente: meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. Ciò significa che nell’adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’ amore di sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, bisogna spingere gli adolescenti a studiare e impegnarsi con motivazioni utilitaristiche, impostando un’ educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che si deve fare da soli, con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali. La mancanza di un futuro come promessa non conferisce più ai genitori e agli insegnanti la possibilità di essere una guida. Tra adolescenti e adulti subentra allora un rapporto di tipo contrattuale, dove genitori e insegnanti sono tenuti a giustificare le loro scelte, e il ragazzo/a accetta o meno ciò che gli viene proposto in un rapporto ugualitario. Ma la relazione tra giovani e adulti non è simmetrica, e trattare l’adolescente come un pari significa non contenerlo, e soprattutto lasciarlo solo di fronte alle proprie pulsioni e all’ansia che ne deriva. Quando i sintomi di disagio si fanno evidenti l’atteggiamento dei genitori e degli insegnanti oscilla tra la coercizione dura (che può avere senso quando le promesse del futuro sono garantite) e la seduzione di tipo commerciale. Ma anche i giovani di oggi devono fare il loro Edipo, devono cioè esplorare la loro potenza, sperimentare i limiti della società, affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza, tra cui uccidere simbolicamente l’ autorità, il padre. E siccome questo processo non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti contrattuali tra padri e figli, l’autorità non esiste più, i giovani finiscono col fare il loro Edipo con la polizia, scatenando nel quartiere, nello stadio, nella città, nella società la violenza contenuta in famiglia. I giovani, poi, non riescono più a percepire l’integrazione sociale, l’acquisizione dell’apprendimento, l’investimento nei progetti, come qualcosa di connesso a un loro desiderio profondo, che è un desiderio di vita.
Le passioni tristi e il fatalismo sono affascinanti, è facile farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica che, dalla minaccia nucleare a quella terroristica, cade come un cielo buio su tutti noi.
Società liquida
“Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro” (Zygmunt Bauman).
“Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti umani, tende a essere considerata male, come una minaccia: dopotutto, qualsiasi giuramento di fedeltà e ogni impegno a lungo termine (per non parlare di quelli a tempo indeterminato) sembrano annunciare un futuro gravato da obblighi che limitano la libertà di movimento e riducono la capacità di accettare le opportunità nuove e ancora sconosciute che (inevitabilmente) si presenteranno. La prospettiva di trovarsi invischiati per l’intera durata della vita in qualcosa o in un rapporto non rinegoziabile ci appare decisamente ripugnante e spaventosa”. “Una società può essere definita “liquido-moderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo.” Zygmunt Bauman (Sociologo e filosofo della “Società liquida”).
Oggi la nostra società è liquida in quanto priva di strutture, di elementi fissati, di certezze. In questo dissolversi di sicurezze anche lo Stato, come garante dei diritti di una comunità, viene sempre meno: individualismo e soggettivismo divengono le malattie di una società che non riesce più a garantire i diritti e valori, nessuno è più compagno di strada ma antagonista, qualcuno da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, senza punti di riferimento, da qui una situazione in cui tutto si dissolve in una sorta di liquidità. La società liquida è quella in cui viviamo: si apre, nella visione del sociologo, in quel periodo che chiamiamo post-modernismo. Come ogni definizione terminologica temporale, attuale, è vaga e racchiude diverse sfaccettature della società: architettura, pittura o letteratura possono vantare tutte un periodo post-modernista. Zygmunt Bauman ha paragonato il concetto di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società. Mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione, ai nostri giorni, invece ogni aspetto della vita può venir rimodellato artificialmente. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Bauman, supera il termine “postmoderno” a favore di “modernità liquida”, proprio per indicare la labilità di qualsiasi costruzione in questa nostra epoca.
Con la crisi dello Stato si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni. Ciò non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento, che ha perso qualsiasi valore morale, sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Il valore economico diventa il tratto distintivo: è il consumismo imperante che ingloba ogni singolo aspetto della nostra vita. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. Basta osservare come si siano evoluti gli smartphone nell’ultima decina di anni, o le nostre televisioni, con un costante incremento di pezzo. La tecnologia continua a svilupparsi grazie all’uomo, tecnico per evoluzione, che incrementa le sue conoscenze in modo da creare un nuovo modello di iPhone ogni anno.
Bauman sostiene che l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano.
Per Zygmunt Bauman il sentimento principale che affligge l’uomo postmoderno è il disagio. Esso ha origine da diversi fattori, in primis dal problema dell’identità. Nel postmoderno, infatti, a differenza dell’epoca moderna, in cui la questione principale era quella di costruire un’identità e stabilizzarla, si rende necessario evitare qualsiasi tipo di fissazione. Nello specifico, Bauman utilizza figure come quella del pellegrino, del turista e del vagabondo. Il pellegrino, figura simbolo dell’età moderna, è il ritratto dell’uomo che sta costruendo la sua vita, il suo futuro, la sua identità, conscio del fatto che domani ci sarà un futuro. Tuttavia ora non c’è più posto per il pellegrino: troppo flessibile è divenuta la realtà perché si possa costruire un qualcosa di stabile e duraturo nel tempo. Ecco allora apparire altre figure di rimpiazzo come quella del “flaneur” (il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, provando emozioni nell’osservare il paesaggio) ma, soprattutto, quella del vagabondo. Autentico flagello dell’età moderna, nel postmoderno la figura del vagabondo è rivalutata proprio grazie alla sua mancanza di radici e di stabilità, esattamente come si presenta il mondo in cui ora si trova a vivere. Infine abbiamo il turista, che a differenza del vagabondo ha una casa ma si sposta temporaneamente, alla continua e febbrile ricerca di sensazioni e piaceri. Il disagio ha anche una seconda alleata: la paura. Il progresso tecnologico ha “reso sempre più inutile il lavoro di massa in relazione al volume della produzione”, unitamente ad una progressiva de-istituzionalizzazione dei processi produttivi, nel senso che lo Stato non fornisce più i servizi per vincere l’incertezza dell’uomo. Ora l’uomo postmoderno “diventa il sorvegliante e l’insegnante di se stesso” e, mentre nell’età moderna fungeva da approvigionatore di beni, ora la sua principale funzione è quella di cercatore di piaceri e sensazioni. Altra fonte di inquietudine postmoderna è il corpo, coerentemente visto come recettore di sensazioni. Affinché possa assolvere al suo compito principale, è necessario che sia in buona salute: ecco entrare nella vita dell’uomo postmoderno il concetto di fitness e di alimentazione legato ad una maniacale attenzione per le pratiche salutistiche
La modernità liquida, per dirla con le parole del sociologo polacco, è “la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”.
Conclusioni
La cultura che ci circonda, la società in cui viviamo ha un forte impatto sulla nostra psiche, siamo collegati alla nostra comunità, a quei legami che riusciamo a costruire. I disturbi che ci attanagliano, le preoccupazioni, sono legate ai messaggi che riceviamo dal nostro ambiente. Ma siamo anche noi fautori di messaggi, noi educhiamo i nostri figli e agiamo le nostre scelte. Per uscire dal vicolo cieco dell’inquietudine occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati, l’attenzione per il proprio ambiente. Della gentilezza verso l’altro non più percepito come un nemico ma un possibile alleato.
Le passioni tristi in fondo, sono una costruzione, un modo di interpretare la realtà, non la realtà stessa, che serba delle risorse se solo non ci facciamo irretire dall’insicurezza. La nostra epoca smaschera l’illusione della modernità che ha fatto credere all’uomo di poter cambiare tutto secondo il suo volere. Ma l’insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire ad un discorso di tipo paranoico, in cui non si parla d’ altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che la società si sente libera dai principi e dai divieti. Se l’estirpazione radicale dell’insicurezza appartiene ancora all’utopia modernista dell’onnipotenza umana, la strada da seguire è un’altra, e precisamente quella della costruzione dei legami affettivi e di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli ideali individualistici che si vanno diffondendo.
Credere nella forza e nella potenzialità di un’economia fondata sulle persone, sulle relazioni, sulla reciprocità, sulla collaborazione. Una proposta nuova per promuovere, sui territori, maggiore coesione sociale e creare sviluppo economico valorizzando le risorse disponibili sul territorio e prendendosi cura delle persone che vivono e lavorano all’interno della comunità. Uscire dalla trappola del desiderio consumistico per passare ad un consumismo critico, dove l’appagamento del desiderio si basa su un bisogno soddisfatto e sulla capacità di rispettare l’ambiente.
Per usare le parole di Bauman “è il rendersi conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti”.
Bibliografia
Bauman Zygmunt. 2006 Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi Laterza
2008 Vita liquida, Laterza
2009 Paura liquida, Laterza
2014 La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli
2014 La società dell’incertezza, Il Mulino
2016 Per tutti i gusti. La cultura nell’eta dei consumi. Ed. Laterza
Bauman Z., Bordoni C. 2015 Stato di crisi. Einaudi
Benasayag Miguel , Schmit Gérard L’epoca delle passioni tristi. Feltrinelli 2003
Eco Umberto La bustina di minerva 2015
Goleman D. (1995). Emotional intelligence. New York: Bantam.
Goleman D. (1997). Emotional intelligence in context. In P. Salovey, D. Sluyter (eds.), Emotional development and emotional intelligence. New York: Basic Books, pp. xiii-xvi.
Migliorini, L. & Rania, N. (2008). Psicologia sociale delle relazioni familiari. Bari: Laterza.
Ruspini E., Luciani S. (2010), Nuovi genitori, Carocci, Roma.
Scabini E., Cigoli V. (2012). Alla ricerca del familiare. Il modello relazionale-simbolico. Raffello Cortina Editore, Milano.
Salovey P., Mayer J.D. (1990). Emotional intelligence. Imagination, Cognition and Personality, 9, 185-211.