FEMMINICIDIO: una strage silenziosa

“non chiedermi perché non sono andata via

lui ha reso il mio mondo così piccolo

che non riuscivo a vedere l’uscita

Rupi Kaur

Il termine femminicidio è un neologismo che identifica l’omicidio di una donna in quanto tale, legato alla cultura in cui la donna è vista come proprietà dell’uomo (MacNish,1827). Viene riferito anche alla violenza esercitata sistematicamente sulle donne per perpetuarne o generare una condizione di subalternità, annientare l’identità individuale con la sottomissione fisica o psicologica, fino alla schiavitù o alla morte. Quindi quando parliamo di femminicidio e più in generale di violenza di genere facciamo riferimento ad un fenomeno di sopraffazione esercitata sulle donne (bambine o adulte) per mano di uomini, all’interno di situazioni relazionali (anche univoche), in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale.

Vi è dunque una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che presenta caratteristiche uniche in quanto si riferisce all’uccisione di una donna, in quanto tale, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima (Barbagli, 2013).

La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress (vd. Balocco P., Catastrofe e Cambiamento).

Esistono diverse forme di violenza nella relazione uomo donna:

fisica, volta a far male o spaventare; viene agita sul corpo con percosse, spinte, strattoni, picchiata, schiaffi, pugni, calci. Oppure donne colpite con armi o sottoposte a tentativi di strangolamento o altri tentativi di omicidio, soffocamento, bruciature. Anche la minaccia di essere fisicamente colpita rientra in questa categoria.

psicologica: un pattern di azioni che l’abusante utilizza per controllare e dominare la sua partner, instillando in essa paura, minandone l’autostima alla base, compromettendone la percezione stessa della propria identità, è fatta di insulti, ricatti, umiliazioni, volta a ledere l’identità della persona;

sessuale, con l’imposizione di pratiche e/o rapporti indesiderati, tramite la forza o ricatti psicologici con violenza o minaccia o abuso di autorità;

economica: quando, in famiglia o in coppia, a una donna viene negata la possibilità di lavorare, di gestire il proprio denaro in autonomia, di avere accesso a un conto corrente personale e, in generale, di essere indipendente a livello finanziario: il risultato è il controllo della donna da parte di un partner maltrattante. Quindi quando qualcuno impedisce, ostacola o concorre a far sì che la donna sia costretta in una condizione di dipendenza, la vittima si trova a non avere mezzi economici per sé e per i propri figli. Le viene di fatto impedito di allontanarsi dalla situazione maltrattante. Ci si trova in una condizione di violenza economica quando ed esempio si ricevono soldi contati, non si ha il diritto a esprimere opinioni sugli acquisti della famiglia ed è necessario giustificare ogni spesa, un tipo di violenza che ancora troppo spesso viene vissuta come una situazione “normale”. Per questo la violenza economica risulta ancora difficile da individuare, perché culturalmente radicata e accettata in numerose realtà, talvolta dalle stesse donne che accettano controlli sulla gestione del denaro, spesso perché non percettrici indipendenti di reddito.

Le vittime, se esposte per lunghi periodi ad abusi e violenze, possono sviluppare un’alterata percezione di sé, delle proprie risorse personali e sperimentare un senso di fallimento rispetto alla possibilità di rendersi autonome sia economicamente che psicologicamente dal proprio partner, destinate inesorabilmente a ledere in maniera consistente all’integrità della propria identità.

A spiegare meglio questo complesso fenomeno concorrono diversi fattori di vulnerabilità quali : esperienze pregresse di abuso, modelli socio-educativi mirati alla sottomissione, aver subito umiliazioni, scarsa indipendenza economica, scarsa autostima, vissuti di vergogna e isolamento sociale, tipici tanto della vittima quanto del carnefice. Oltre a ciò è fondamentale tenere in considerazione le possibili combinazioni personologiche dei due partner.

I fattori di rischio nelle dinamiche di violenza

Il ciclo della violenza è stato definito dalla psicologa americana Lenore Walker come:

il progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa, sistematica, e quindi ciclica, da parte del partner ”.

La teoria del ciclo della violenza (“cycle theory of violence”) parte dal presupposto dell’esistenza di più fasi che si ripetono “ciclicamente” nel corso di una relazione maltrattante. Walker ha individuato essenzialmente tre fasi nel ciclo della violenza:

  • Fase di origine della tensione (tension building)
  • Fase attiva degli episodi di violenza (active batteria incidents)
  • Fase della contrizione amorosa (loving contrition)

Vi è sempre un inizio che, solitamente dalle donne è descritto come “normale”, la violenza si manifesta per gradi, in maniera subdola. L’intento iniziale è di colpire direttamente l’autostima della vittima (che viene ignorata, svilita, ridicolizzata pubblicamente dal partner ecc.). La donna, in questa fase, inizia ad avvertire la crescente tensione e cerca di prevenire l’escalation della violenza mostrandosi accondiscendente rinforzando in questo modo, però, nell’uomo la convinzione di avere il diritto di agire in modo violento. Questi comportamenti , inizialmente sporadici, si fanno sempre più frequenti fino ad un escalation di violenza.

Si arriva, poi, alla fase di “esplosione o aggressione” in cui l’uomo dà l’impressione di perdere il controllo di se stesso e passa ad agire la violenza fisica. Ai “semplici” spintoni e schiaffi si aggiungono pugni, calci, percosse con oggetti, fino all’estremo uxoricidio. Spesso alla violenza fisica si associa la violenza sessuale, utilizzata dall’uomo per sottolineare il proprio potere e predominio sulla partner. La donna tende a non reagire, si rende conto che, se resistesse, le cose potrebbero peggiorare.

La terza ed ultima fase del ciclo della Walter, è la cosiddetta fase di “contrizione amorosa”, nota anche in letteratura come “Fase della Luna di Miele”. L’uomo si mostra dispiaciuto e pieno di attenzioni, si scusa con la sua vittima e promette che non si comporterà mai più in quel modo. Questi comportamenti tuttavia rappresentano un’ulteriore manovra manipolatoria: infatti la donna spesso crede nel pentimento del partner e lo perdona. È in questa che molte donne nella speranza che il partner cambi davvero, possono giungere a ritirare la richiesta di separazione o a revocare la testimonianza resa per es. nell’ambito di un procedimento penale. Le speranze però, puntualmente disilluse determinano l’inizio del nuovo ciclo della violenza.

Disegnando poi un possibile ritratto a livello psicologico delle vittime di femminicidio, si è notato come gli aspetti culturali familiari della violenza possano innescare il meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che presentano le vittime (Baldry, 2006). Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è stato messo in risalto il concetto di “inpotenza appresa”. Il concetto di impotenza appresa indica ” la reazione di rinuncia, la risposta di abbandono che segue al credere che qualsiasi cosa tu possa fare non è importante” (Martin Seligman 2017, p. 29) . Quindi chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga, sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile. Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative.

Donald Dutton e Susan Painter (Dutton & Painter, 2009) hanno rivisitato molti studi e ricerche sul motivo per cui le donne rimangano in relazioni violente il cui epilogo è spesso la morte e sono giunti alla conclusione che l’elemento che spiega il permanere in una situazione di violenza è l’intermittenza dell’abuso. Diverse vittime hanno infatti descritto conespressioni di soddisfazione e gratificazione i periodi di riconciliazione intercorsi tra i momenti di violenza. Questo modello si mostra in sé perverso, in quanto conduce inevitabilmente a ignorare il problema della violenza e a considerarlo un’eccezione, un momento di aberrazione del rapporto che rimane, nella percezione complessiva della donna, come positivo.

Prospettiva sociale e politica

La riflessione sulla violenza di genere e il femminicidio da una prospettiva sociale e politica è la più diffusa, in questo momento. È una prospettiva di analisi che ci aiuta a mettere a fuoco una serie di problemi. In generale, la causa sociale della violenza viene attribuita alla tendenza maschile a non considerare le donne come individui indipendenti e con il diritto di autodeterminarsi, ma come cosa propria. L’aumento di casi di violenza e femminicidio viene spesso associato al fatto che in questo momento stiamo vivendo una fase di mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà, e viene quindi vissuta dagli uomini come una minaccia alla propria virilità o al proprio diritto al dominio sessista.

La battaglia è sociale e riguarda da una parte il proseguimento di questo processo di emancipazione (sia attraverso un potenziamento della legislatura delle pari opportunità, sia attraverso un coinvolgimento della società civile), e dall’altra attraverso la rappresentazione e narrazione di questa nuova identità femminile emancipata attraverso i media, i giornali, le pubblicità. Al momento, lo scollamento tra una rappresentazione della donna in larga parte patriarcale e antiquata e il ruolo attivo e importante che un numero sempre maggiore di donne ricopre nella vita reale non solo aiuta a creare ideologicamente terreno fertile per la violenza, ma rende anche la narrazione stessa della violenza nei media: primitiva, stereotipata e sessista.

Questa inadeguatezza della società a stare al passo con l’emancipazione femminile si riflette nella risposta delle istituzioni spesso tardiva o inadeguata alle denunce di violenza da parte delle vittime. Spesso nelle situazioni che si concludono con morte della donna vi è stata violenza per molto tempo in (Schulman 1979, Johnson, 1995).

Questo problema determina, insieme a molti altri, la percentuale relativamente piccola di donne che denunciano violenza. Tuttavia anche fattori influiscono su questo. La denuncia a volte è difficile da fare perché vi è il concreto rischio di un aumento di maltrattamenti, e chi è terrorizzato fa fatica a parlare. Lo stato dovrebbe dunque dedicare molto più tempo e molte più risorse nella costruzione di aree per l’ascolto delle donne, per l’indagine e per la protezione. In questo contesto i centri antiviolenza sono effettivamente molto utili, e dovrebbero funzionare bene su tutto il territorio italiano.

Prospettiva psicologica

La discussione psicologica delle cause della violenza di genere è piuttosto carente (Straus e Gelles 1992; Dutton 1994). Potrebbe essere che la giusta critica alla rappresentazione di femminicidi come ‘momenti di follia’ o ‘folle gelosia’ o ‘omicidi passionali’ hanno forse disincentivato molti autori ad d affrontare questo aspetto. Un’attenta analisi psicologica può essere utile per dare il giusto peso ai segnali di allarme e quindi, nei limiti del possibile, prevenire gli atti di violenza e, sul lungo termine, elaborare strategie vincenti per ridurre e combattere tali atti.

Quando un uomo è violento, spesso esprime una reazione ad un sentimento di helplessness, di fragilità, considerata inaccettabile, alla quale egli cerca di resistere picchiando. La violenza può essere il tentativo di controllare la depressione, derivata da sentimenti di umiliazione inaccettabili. Queste persone potrebbero essere cresciute in ambienti violenti, umiliate o maltrattate dalle figure di riferimento.

Grazie agli studi sul trasferimento transgenerazionale della violenza (fine degli anni 80 e la metà degli anni 90). Si ha conoscenza che se un bambino o una bambina assistono a violenza sistematica da parte di un genitore verso l’altro genitore o verso un fratello o se essi stessi subiscono violenza, è più facile che poi utilizzino la violenza quando si trovano in condizioni di stress (Straus, 1998). A fronte di una tendenza delle donne e degli uomini a essere egualmente conflittuali, la percentuale di crimini da violenza è a favore dei maschi (90%) rispetto alle donne. naturalmente, si parla di una piccola percentuale degli uomini. Infatti, l’80% dei maschi non sono violenti, il 12% è violento ogni tanto e l’8% è violento sempre. Noi consideriamo gli ultimi due gruppi dove bisogna parlare di disturbi di personalità, che hanno un’incidenza importante negli assalti (80-90% a fronte di un 15% nella popolazione normale). Edwards et al (2003) hanno dimostrato che vi è una percentuale più alta di disturbi antisociali e borderline nella popolazione dei violenti verso le donne. Una violenza intra familiare, impulsiva e legata a disturbi di personalità.

Ma non è l’unico tipo di violenza. La violenza contro le donne può essere di diverso tipo:

  • Impulsiva preterintenzionale (ho intenzione di fare del male ma non di uccidere, mi arrabbio, do un pugno, la ragazza cade, batte la testa e muore)
  • Impulsiva e basta (ho intenzione solo in quel momento di uccidere, mi fa arrabbiare, perdo il lume della ragione e la strozzo, lei muore). 
  • Strategica, Paranoidea(ho un piano di assassinio preparato da giorni: aspetto la mia ex donna che mi ha lasciato dietro un cespuglio, lei arriva e io l’ammazzo). 
  • Di gruppo (con un gruppo di maschi dopo avere bevuto molte birre, ci prendiamo una ragazza e la violentiamo insieme, poi la buttiamo giù dalla macchina e lei muore). 
  • Da fallimento della grandiosità narcisista(come si permette una come lei che avevo raccolto per strada di sfidarmi o lasciarmi, questa umiliazione, questa perdita della faccia è per me insopportabile e la uccido). 
  • Antisociale / Amorale (Mi ha stufato, non mi serve più, ho un’altra più giovane e più bella, la uccido e così sono libero). mito della madre.

La violenza dei disturbi di personalità nasce nelle famiglie. La violenza intra-familiare, la violenza di genitori a loro volta maltrattati e che divengono maltrattanti è all’origine di gran parte dei comportamenti violenti dei pazienti. Va combattuta come un grave problema psichiatrico con risvolti sociali importanti. Otto Kernberg (2004) scrive: Bambini maltrattati sviluppano maggiore dipendenza dai genitori abusanti e tendono a riprodurre i rapporti di maltrattamento nell’età adulta”.

Se tratto male mio figlio, di fronte a problemi complessi, a minacce di abbandono e difficoltà, si sentirà impotente e da adulto attuerà gli stessi comportamenti che ha subito verso chi è più vulnerabile di lui, la sua compagna. Con il perpetuarsi di questi atteggiamenti si trasmette ai figli il comportamento deviante: se tratto male mia moglie, la umilio, la picchio di fronte ai miei figli, costruisco persone che a loro volta tratteranno male e maltratteranno le loro compagne. La violenza familiare va dunque individuata e fermata fin dall’infanzia. Le madri che accettano che il figlio assista alle percosse che prende dal marito, lo mettono in contatto con la violenza come qualcosa di accettabile, donne che lasciano che il terrore le blocchi nella difesa dei figli (che può essere la fuga dal marito violento, la denuncia), passano il bastone della violenza alla generazione successiva.

Da un punto di vista psicologico è importante guardare alle donne, che se in alcuni casi riescono a uscire da relazioni violente e a denunciarle, in molti altri non fuggono da uomini violenti, non si proteggono, non leggono segnali preliminari che c’erano stati e spesso estremamente chiari. Donne che accettano la compagnia di uomini violenti sviluppano nei loro confronti spesso relazioni di dipendenza. E la dipendenza femminile da uomini violenti ha anche origine in famiglie nelle quali la violenza e la prepotenza maschile è accettata o tollerata. Le ragazze che hanno padri violenti rischiano di divenire vittime di uomini violenti (Norwood).

Per quel che riguarda le sindromi psicopatologiche conseguenti ai maltrattamenti e alla violenza di genere ne sono state descritte due tipologie

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) é una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime, continuamente concentrate su come sopravvivere in una situazione cronica di fortissimo stress, cercano di controllare il loro ambiente per evitare almeno le violenze più gravi. La loro attività di strategizing (trovare strategie) le induce così a concentrarsi sulla bontà del loro carnefice piuttosto che sulla brutalità. La vittima arriva a convincersi di dover stare con il carnefice al fine di proteggere i figli e i parenti dalla violenza, fino ad arrivare a pensare che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele (Reale, 2011).
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS), individuata dagli studi di Leonore Walker (Walker, 2007) è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, e una terza fase di cosiddetta “luna di miele”. Quest’ultima fase “amorosa” di sollievo in realtà amplifica il disagio creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare (Walker, 2007). La Walker afferma che tale sindrome è comune tra le donne gravemente abusate: tra gli elementi che rendono estremamente complesso il loro quadro è il non esaurimento della speranza che il partner cambi, la dipendenza economica dal partner, la convinzione di poter gestire un equilibrio familiare tra un un’esplosione di violenza e la successiva, la paura di rimanere sola, la perdita di autostima, uno stato di depressione o la perdita dell’energia psicologica necessaria a iniziare una nuova vita (Danna, 2007).

Le vittime

Con numeri in continuo aumento, abbiamo una grande variabilità di tracciando un identikit psicologico delle vittime di femminicidio, si è osservato (Baldry, 2006) come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. In passato si parlava di vis grata puellis (Betsos, 2009) in particolare in materia di violenza sessuale, o di “destino anatomico” che impone l’umiliazione alla donna.

Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa” (De Pasquali, 2009). Secondo questa ricostruzione, chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga, sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile. Uno studio sperimentale condotto da Martin Seligman nel 1967 (Musumeci, 2012) ha dimostrato che il cane che viene rinchiuso in una gabbia e a cui viene somministrata una scossa elettrica, dopo ripetuti tentativi di fuggire sempre frustrati dal fatto che la gabbia non consente all’animale la fuga, rinunceranno a cercare di sottrarsi anche una volta che venga loro mostrato che la gabbia è stata aperta. Gli esseri umani si comportano in modo analogo, l’addestramento alla rinuncia e la rassegnazione potrebbe essere simile. Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico” (Betsos, 2009). Si tratta di un termine impiegato nella letteratura per descrivere un legame potente e distruttivo che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti o tra bambini e i loro genitori (Dutton & Painter,1981). Esso permette di descrivere dunque certe situazioni in cui i forti legami emotivi che si possono formare tra le vittime e i loro oppressori risultano in una complessa serie di relazioni abusanti, quali ad esempio la Sindrome di Stoccolma. Le condizioni necessarie quindi al verificarsi di un vincolo traumatico sono due: il fatto che una delle persone coinvolta nella relazione abbia una posizione di dominio sull’altra, e che il livello di abuso compaia e scompaia cronicamente. Il rapporto cioè è caratterizzato da periodi di comportamenti partecipativi e affettuosi da parte del partner dominante, alternati ad episodi di abuso intenso, che possono poi sfociare in casi di femminicidio.

Nel ciclo di comportamenti relazionali, attribuiti a legame traumatico, il “vittimizzatore” impone forti punizioni, poi dopo aver dato un rinforzo negativo, che censura il comportamento “irregolare” della vittima, dismette il comportamento punitivo e si sposta a gratificare la vittima con rinforzi positivi. Questo modello di punizioni e rinforzi positivi può costituire una forma particolarmente potente di double bind e legittimare così nella vittima la paura di essere feriti o uccisi come reazione a una qualche mancanza, a un qualche atto di sfida o di autonomia o a una non conformità alle regole imposte o previste.

I risultati delle ricerche e delle teorie di Donald Dutton e Susan Painter (Dutton & Painter, 2009) risultano convincenti per quanto riguarda il motivo per cui le donne rimangano in relazioni violente. I due autori hanno rivisitato molti studi e ricerche sull’argomento e sono giunti alla conclusione che l’elemento forte che spiega il permanere in una situazione di violenza è l’intermittenza dell’ abuso. Molte donne hanno infatti descritto con espressioni di soddisfazione e gratificazione i periodi di riconciliazione intercorsi tra i momenti di violenza. Questo modello si mostra in sé perverso, in quanto conduce inevitabilmente a ignorare il problema della violenza e a considerarlo un’eccezione, un momento di aberrazione del rapporto che rimane, nella percezione complessiva della donna, come positivo.

Per mantenere il sopravvento il carnefice manipola il comportamento della vittima e limita la sua libertà di scelta al fine di perpetuare lo squilibrio di potere. Qualsiasi minaccia all’equilibrio può essere controllata con un ciclo crescente di punizioni che vanno da intimidazioni a esplosioni vere e proprie di violenza. Il carnefice inoltre isola la vittima da altre fonti di sostegno, cosa che riduce la probabilità di individuazione dei comportamenti abusanti e la capacità di intervento su di essi; altera la capacità della vittima di ricevere un punto di vista diverso da quello dell’abusante rafforzando così il senso di dipendenza unilaterale (Dutton & Painter, 2009).

Gli effetti traumatici di tali relazioni violente possono includere la compromissione della capacità della vittima di una corretta autovalutazione delle risorse personali, portando a un senso di inadeguatezza e a una percezione di dipendenza dalla persona dominante.

Le vittime possono anche incontrare una serie di spiacevoli conseguenze sociali e legali nel rapporto con qualcuno che commette atti aggressivi, anche se esse stesse sono le destinatarie delle aggressioni. Molte spiegazioni teoriche come ad esempio quelle psicodinamiche che (Horowitz & Mardi, 2001) chiamano in gioco il concetto di masochismo , di coazione a ripetere (Freud, 1920), per spiegare come determinate vittime, mostrando una propensione verso i rapporti abusivi e i legami traumatici. Alla base di queste teorie vi è l’attaccamento insicuro (Bowlby, 1983) che si è determinato nella storia infantile e nelle relazioni con le figure parentali. Questo legame traumatico si configura come una sorta di «elastico, che nel tempo si estende lontano da chi abusa e, successivamente, torna indietro» (Magaraggia & Cherubini, 2013). Non appena l’effetto della reazione immediata del trauma si abbassa, la forza del legame traumatico si rivela attraverso sia l’incremento della focalizzazione degli aspetti positivi della relazione, sia in un successivo e improvviso cambiamento del punto di vista della donna sulla relazione: si altera quindi la memoria degli abusi passati e la previsione del ripetersi degli stessi nel futuro.

Nella storia del legame traumatico troviamo un altro fattore essenziale alla sua formazione: la gradualità, ovvero l’incremento graduale degli eventi abusivi (Magaraggia & Cherubini, 2013). Questo incremento è simile «ad un lento veleno la cui portata lesiva non può essere percepita nell’immediatezza dei fatti. Esso coopera con una forma di adattamento, compatibile con la permanenza del rapporto più che con la fuga dal rapporto» (Millon,2004). Così nella storia di questo rapporto troviamo che, soprattutto all’inizio della relazione, gli eventi d’abuso non sono percepiti come un’anomalia e ad essi non viene attribuito inizialmente il carattere di gravità. Inoltre, gli atteggiamenti di contrizione da parte dell’uomo successivamente agli incidenti violenti operano al fine di rafforzare l’attaccamento affettivo in un momento in cui non vi è cognizione che l’abuso si ripeterà, si aggraverà e diventerà ineludibile. Il ripetersi di episodi di maggiore gravità tenderà poi a formare la convinzione nella donna che la violenza si ripresenterà a meno che non faccia qualcosa per prevenirla.

Il Profilo del Femminicida

Relativamente alle strutture di personalità  dell’uomo che commette femminicidio molti criminologi (Dutton,1981) hanno sottolineato la presenza di strutture personologiche improntate a fattori quali la prepotenza, la possessività, forse dettata da panico di fronte alla prospettiva dell’abbandono, ma in ogni caso fondata sulla mancata considerazione dell’altro con i suoi diritti e le sue esigenze.

Elbow (Elbow, 1977) descrive l’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore: colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore: che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Chi è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore: colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Questi soggetti devono compensare la propria modesta autostima, ma talora dimostrano veri e propri sintomi psicopatologici.

Si tratta di dinamiche in cui il rapporto si gioca sul duplice piano della fusionalità e della relazione dominante/dominato. Il soggetto è coinvolto in un rapporto che ha assunto per lui significato totalizzante: l’altro è così importante o “invadente” da essere ormai parte della vita e dell’identità stessa dell’attore.

Altri autori ancora (Killmartin,1977) ravvisano fra i mariti violenti  persone con disturbi di personalità, individui con una preciso quadro diagnostico psichiatrico, per alcuni dei quali la violenza in famiglia non è che uno degli aspetti di un più generale pattern violento, mentre per altri il comportamento abusante di “controllo e potere” si esplicita solo entro le mura domestiche.

Nel caso del disturbo di personalità si corre però il rischio della tautologia; i disturbi di personalità, infatti, si caratterizzano almeno in parte proprio perché chi ne è affetto si discosta dalla “norma” comportamentale e statistica, piuttosto che dalla “normalità” medica; si puo’ correre il rischio di effettuare una diagnosi di disturbo di personalità in presenza di delitti gravi.

Il DSM-5 fornisce la seguente definizione dei disturbi di personalità “La caratteristica essenziale di un Disturbo di Personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo […]. La valutazione del funzionamento della personalità deve prendere in considerazione l’ambiente etnico, culturale e sociale dell’individuo” (DSM-5, 2014).

Isabella Betsos (Betsos, 2009) distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • le persone con un disturbo narcisista di personalità hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro. Questi soggetti si nutrono dello sguardo altrui, e più che di amore necessitano di ammirazione e di attenzione continua. Nella coppia, sono dominatori e attraenti, e cercano di sottomettere e isolare la compagna. Il narcisista cerca la fusione e ha bisogno di fagocitare l’altro.
  • Il disturbo antisocilae di personalità, chiamati psicopatici e sociopatici è caratterizzato principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, la messa in atto di azioni eteroaggressive; le persone con questo disturbo, infatti, non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, come ad esempio distruggere proprietà, truffare, rubare, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi, quali il mentire, il simulare, l’usare false identità, traendone profitto o piacere personale. Elemento distintivo del disturbo è, inoltre, lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni, per cui i soggetti con disturbo antisociale di personalità, dopo aver danneggiato qualcuno, possono restare emotivamente indifferenti o fornire spiegazioni superficiali dell’accaduto. Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività. La prevalenza del disturbo antisociale di personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e l’1% nelle femmine.
  • Gli individui che presentano un disturbo borderline di personalità (DBP): tale quadro psicopatologico è caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Gli individui con disturbo borderline della personalità possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione: possono, ad esempio, dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”. I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro venga catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti, esercitano uno stretto controllo non attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. “Nei perversi è l’invidia a guidare la scelta del partner. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino. E’ per questo che scelgono le loro vittime tra le persone piene di vita, come se cercassero di accaparrarsi un po’ della loro forza. Oppure possono scegliere la loro preda in funzione dei vantaggi materiali che può procurare.” (Hirigoyen, M. 2006).
  • Le personalità paranoiche, sono coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici. Secondo loro la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Costantemente sospettosi e diffidenti, temono complotti ai loro danni anche da parte del coniuge, e la loro gelosia talora sfocia nella patologia vera e propria. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa. Se minacciati di abbandono o abbandonati, nella migliore delle ipotesi metteranno in atto comportamenti di stalking senza però giungere all’uxoricidio.

Nel caso di uxoricidio e femminicidio il movente viene individuato , secondo alcuni autori (Costanzo, 2003), nella gelosia. Si parla di una “gelosia di tipo competitivo” di quei soggetti che soffrono per aver perduto l’oggetto d’amore ma insieme sentono la perdita come una diminuzione della propria autostima, per loro l’amore si fonda sulla dipendenza, incapaci di amore autentico perché tesi al soddisfacimento dei propri bisogni narcisistici. Vi è poi un secondo tipo di uxoricidi per «gelosia di tipo proiettivo», i quali riversano sul coniuge i propri desideri non riconosciuti di infedeltà. Una terza forma di gelosia, segnata da una patologia vera e propria, è quella del coniuge gravato da delirio di gelosia, spesso accompagnata da cronico alcolismo (Costanzo, 2003).

Tra i fenomeni psicopatologici dell’etilismo cronico sono tipici i deliri di gelosia, cioè convincimenti erronei sull’infedeltà del partner, facilitati anche dalla diminuita efficienza sessuale: tale delirio risulta anche favorito dall’atteggiamento di rifiuto che generalmente si manifesta in famiglia nei confronti dell’etilista sia da parte del coniuge e dagli altri membri della famiglia (Ponti & Betsos, 2014).

Una possibile spinta motivazionale ai delitti contro la partner e al femminicidio potrebbe essere ricercata quindi nell’insicurezza sessuale: si tratta di delitti d’impeto che non riuscendo a sostenere un rapporto sessuale, uccidono la partner femminile e nel contempo distruggono quel simulacro angoscioso che rappresenta, per loro, il fallimento (Ponti & Betsos, 2014).

L’abuso di alcool è citato come fattore criminogenetico in generale e in particolare correlato alla violenza di coppia (Ponti & Betsos, 2014): il bere porta a sovrastimare l’ostilità e le minacce altrui, e questo a sua volta favorisce condotte aggressive. L’attribuzione di episodi violenti a stati di ebbrezza appare una tecnica di neutralizzazione, e anche il consumo di alcol non è che un sintomo, come la violenza, non un fattore casuale.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità, della gravità delle violenze, Monroe e Stuart (Monroe & Stuart, 2004) descrivono:

  • un aggressore dominante-narcisista: per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente: che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali: caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

Distinzione non molto dissimile, proposta da Dixon e Browne (Baldry & Roia, 2003), è quella tra i violenti solo in famiglia, che risultano essere i meno gravati da disturbi psicopatologici; i disforici-borderline, segnati da sintomi patologici e in particolare da ansia, depressione, estrema labilità emotiva; e i generalmente disforici-antisociali che si configurano come i più violenti di tutti, caratterizzati da precedenti penali e abuso di sostanze ed eredi di quadri familiari violenti. Mentre per i primi la violenza è soprattutto di tipo espressivo, scaturisce cioè da emotività non controllata, per i disforici-borderline e i violenti-antisociali si tratta di violenza “strumentale”, dettata da specifiche finalità e premeditata.

Dixon e Browne sostengono che circa il 25% dei maltrattanti è costituito di violenti solo in famiglia, ma anche il 25% è costituito da violenti/antisociali, e alla terza categoria, i borderline/disforici, apparterrebbe il restante 25%. Questi tipi si differenzierebbero anche rispetto ad altri fattori, alcuni dei quali culturali, come il livello di violenza subita o a cui si è assistito durante l’infanzia, l’impulsività, la presenza o l’assenza di atteggiamenti che supportano o giustificano la violenza.

Statistiche italiane sul femminicidio

Per lo specifico quadro italiano, l’Istat informa (www.istat.it) che il partner violento è un soggetto fisicamente violento anche al di fuori della famiglia (35,6%), verbalmente violento anche al di là delle mura domestiche (25,7%). Inoltre nel 2006 il 74% degli autori di violenza era in partner o l’ex-partner della vittima, nel 2007 il 58% degli autori sono in partner o l’ex partner, nel 2008 il 54%, mentre nel 2009 il 63%, nel 2010 il 54% fino ad arrivare al dato rilevato lo scorso anno: il 65% degli autori è ora legato alla vittima da un rapporto sentimentale.

Conclusioni

È importante che le donne imparino a riconoscere le situazioni rischiose. Anche il più piccolo segnale di violenza, (un urlo improvviso, un gesto spazientito che fa saltare il telefono dal tavolo, alcune domande di troppo) deve essere valutato come un messaggio per capire se la persona davanti è da considerarsi pericolosa, e quindi quella relazione una storia che potenzialmente ci mette a rischio, e che quindi andrebbe chiusa.

Un uomo violento non cambia con l’amore di una donna, non è curabile altro che con la conquista della consapevolezza del suo problema e il doloroso passaggio attraverso una buona psicoterapia.

Le donne devono imparare ad essere prudenti e difendersi dai primi segnali dalla violenza maschile (Camille Paglia), e a non esporsi a chiarimenti o incontri di discussione in situazioni di conflitto e violenza.

Nessun amore maledetto vale la vita, nessun legame familiare costringe all’autodistruzione.

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